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Lo aveva capito già don Lorenzo Milani quarant’anni fa che è importante imparare le lingue straniere, ma — si sa — don Lorenzo non a caso è stato definito l’uomo del futuro. «Più lingue possibili» scriveva in “Lettera a una professoressa” «perché al mondo non ci siamo solo noi. Vorremmo — continuava — che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre». La lingua dunque come strumento di riscatto sociale, perché — sono sempre parole del priore di Barbiana — «è solo la lingua che fa eguali». E la prima arma in un Paese non necessariamente ostile ma sicuramente straniero è la lingua con la quale rivendicare i diritti fondamentali come lavoro, casa, istruzione, salute.


In ogni modo, sia per chi vi è costretto (gli immigrati) sia per chi vi è naturalmente portato (i nati da genitori che parlano lingue diverse) sia per chi lo sceglie consapevolmente (famiglie che decidono di iscrivere il proprio figlio a una scuola con una lingua d’insegnamento diversa da quella parlata in casa) si tratta sempre di una grande opportunità, e se ormai non ci sono più dubbi sul fatto che sapere più lingue ti apre la mente e ti rende più tollerante e adattabile ai cambiamenti, non è ancora scontata la consapevolezza dei benefici che comporta quando questo avviene nei primi anni di vita.

Se ne parlerà a Trieste sabato 16 settembre in occasione della III edizione del Festival “Fin da Piccoli”, che quest’anno farà tappa anche a Siracusa, nel milanese e successivamente in Piemonte, Lazio e Sardegna. Promotore dell’iniziativa è il Centro per la salute del Bambino (http://www.csbonlus.org) , una onlus che si occupa della salute e dello sviluppo del bambino partendo dalla convinzione scientificamente provata che gli interventi precoci (nei primi 1000 giorni di vita) hanno effetti che durano per sempre: come gli anni scorsi il Centro sarà affiancato dal Garante Regionale dei Diritti della Persona, dal Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia (GNNI) e dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA), che conferma la sua adesione perché — dichiara il direttore Stefano Ruffo — «da molti anni impegnata grazie a importanti studi svolti dal professor Jacques Mehler e oggi portati avanti da scienziati di riconosciuto valore come Davide Crepaldi nella ricerca di base ma anche nell’esplorare tematiche di rilievo sociale, come la condizione del bambino, i processi di apprendimento nell’infanzia, il linguaggio nei primi anni di vita»; quest’anno, inoltre, potrà contare anche sulla partnership dell’Università degli Studi di Trieste (in particolare del Dipartimento di Scienze Giuridiche, dell’Interpretazione e della Traduzione), che accoglierà i partecipanti nell’Aula Magna della Scuola Interpreti.
Ma perché medici, scienziati e pedagogisti hanno deciso di occuparsi delle seconde lingue nei primi anni di vita? Perché si tratta di situazioni che non sono più un’eccezione: in Italia almeno 1 bambino su 5 ha un genitore straniero e stiamo assistendo a una sempre più capillare e intensa diffusione di lingue e dialetti locali, senza contare che il bilinguismo è un tratto distintivo di molte regioni italiane, non solo di confine. Quello su cui i relatori indagheranno, prima di presentare alcune buone pratiche interessanti sia per le famiglie che per i servizi educativi, riguarda i vantaggi che un’educazione precoce al plurilinguismo apporta nei bambini, vantaggi che non sono solo linguistici: «Imparare più di una lingua fin dalla nascita in un ambiente stimolante — ci spiega Amanda Saksida della SISSA — può avere molti benefici a livello di sviluppo cognitivo, incluso un più veloce e migliore sviluppo di varie funzioni esecutive, oltre al fatto che potrebbero anche avere meno problemi nell’apprendimento di una terza o quarta lingua. Per questo motivo i bambini bilingui sono spesso considerati più “intelligenti” dei monolingui.


Infine, i benefici del bilinguismo si estendono anche alle età più avanzate: i bilingui potrebbero, infatti, essere più resistenti alla demenza e ad altri sintomi dell’Alzheimer». Tuttavia, sottolinea Saksida, tutto ciò avviene a condizione che ci sia una comunità accogliente, che supporta le diversità culturali e linguistiche anche attraverso un sostegno istituzionale e finanziario: in un ambiente ostile, infatti, i genitori potrebbero decidere di usare solo la lingua maggioritaria, quella dominante in quella società. «Un tempo» ci racconta Anduena Alushaj, ricercatrice del Centro per la Salute del Bambino «si tendeva a dimenticare la lingua madre, perché si temeva che inibisse l’apprendimento della seconda lingua, mentre in realtà la lingua madre aiuta ad apprendere la seconda lingua, ma è essenziale l’intensità d’esposizione, il coinvolgimento dei genitori, la continuità; è altresì importante che nessuna delle due lingue sia motivo d’esclusione per uno dei genitori e che la comunità favorisca l’acquisizione della così detta L2 attraverso iniziative che comunichino accoglienza e ospitalità come ad esempio le letture in biblioteca e la condivisione delle fiabe».

Perché una lingua cresce solo se si relaziona e si mette alla prova. Come un bambino.